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AIUTI ALLE DONNE VIOLENTATE
Come raccontare delle donne di Burhale?

Sapevano che saremmo venuti a trovarle, a conoscerle. Joseph e la suora responsabile del centro le hanno chiamate….così ci aspettavano in uno stanzone del centro di sanità, erano tutte accalcate in pochi metri. L’odore forte, l’aria pesante e consumata sono l’ingresso per l’ultimo mondo, lì dove la sofferenza tocca il fondo, dove la violenza dell’uomo si fa incomprensibile, dove la vita è travolta, sfregiata e sembra impossibile che possa rinascere.

Ci hanno accolto fissandoci con quegli occhi neri, con quei volti segnati dalla miseria…con le mani giunte in segno di affetto e ringraziamento. La suora e l’infermiere ce le hanno presentate…dicono che hanno tanto desiderato questo momento, di poterci incontrare, di poter raccontare al mondo, attraverso di noi, la loro umiliazione, di poter ringraziare chi ha ridato loro la speranza di una nuova vita.

Così alla domanda “Chi vuol cominciare?” Una folla di mani si è alzata. Tutte volevano raccontarci cosa era successo loro e continua a succedere in questa terra dimenticata da tutti. Ne abbiamo ascoltate quattro, tutte tragicamente uguali:




l'incontro con le donne assistite
“Ero in casa con la mia famiglia. Era sera. Abbiamo sentito del rumore fuori, poi sono entrati i soldati, hanno saccheggiato quello che c’era in casa, hanno picchiato mio marito. Poi mi hanno presa, mi hanno costretta a stendermi nel mezzo della stanza, nella buca dove si accende il fuoco. Mi hanno spogliata ed hanno costretto mio marito ad avere rapporti con me lì davanti a tutti, ma non ci riusciva, era impossibile. Allora lo hanno preso, buttato da una parte e riempendolo di calci gli hanno detto: “Ti facciamo vedere noi come si fa.” Così mi hanno violentata ripetutamente davanti ai suoi occhi. Anche i miei bambini erano in casa. I soldati erano cinque e tutti mi hanno violentata. Poi se ne sono andati prendendosi tutto il niente che c’era da prendere... “Io ero nel campo con le due mie bambine più piccole; sono arrivati, mi hanno presa, non sono riuscita a fuggire, mi hanno violentata in quattro davanti ai miei figli, poi hanno violentato anche la mia bambina.”
le donne curate, solo l'inizio di un problema... Guardarle, ascoltare, toccarle è difficile. È difficile perché non è un film, è realtà. Sono lì, raccontano, piangono, ti stringono la mano. Sono loro le vittime dimenticate di questa assurda ingiustizia. Poi ci ringraziano, ci chiamano: i benefattori. Allora timidamente rompiamo il nostro silenzio pieno di commozione e gli balbettiamo: “ No non siamo i benefattori, siamo qui semplicemente per dirvi che siamo vostri fratelli, perché sappiate che siamo una sola famiglia, che non siete sole e vi vogliamo bene.” Allora hanno fatto un grido di approvazione e si sono messe ad applaudire; alcune commosse sorridevano con gli occhi pieni di lacrime. Ci siamo presi per mano, tutti, in quella stanza di pochi metri, noi, i quattordici “mzungu” (bianchi), le duecentoventi ragazze, la suora , l’infermiere… Non si sentiva più l’odore forte né l’aria pesante, anzi, quei sorrisi, che ora ci accoglievano come famiglia nell’ultimo mondo, rendevano l’atmosfera luminosa. Abbiamo alzato le mani unite e detto insieme in due lingue l’unica preghiera: “ Padre nostro, che sei nei cieli…”. Sì, ci siamo presi per mano e abbiamo sussurato insieme: “Padre nostro, che sei nei cieli…”. Come raccontare delle donne di Burhale, come spiegare a parole quello che quelle mani unite e alzate al cielo stavano a significare? , gli abbiamo detto di , che siamo una sola famiglia. alle duecentoventi donne che avevamo accanto. ai loro bambini . ai loro mariti. alle altre centinaia di donne che stanno aspettando di curarsi per le infezioni riportate dalle violenze. ai bambini frutto di queste violenze, che nessuno vuole. a quel sorriso, a questa speranza che si è accesa in questa terra abbandonata da tutti... Sì! Padre nostro, che sei nei cieli, sì!
AL CENTRO DELLA SANITA'...
dove tutti i malati dei villaggi di Burhale dovrebbero curarsi: manca l’acqua, la luce, le medicine e perfino i materassi...

Il centro di sanità di Cirhundu dovrebbe essere in grado di soddisfare le necessità primarie dal punto di vista sanitario per tutta la zona di Burhale che comprende decine di villaggi in una superficie molto vasta; in teoria dovrebbe servire da pronto soccorso, per le visite mediche generiche e finanche all’assistenza ai parti. La situazione è veramente grave e suor Deodata, responsabile del centro, ce ne parla con la sofferenza...

Lei lavora insieme a tre infermieri. Un dottore passa una volta al mese, se tutto va bene... Ci accompagna dentro il centro per farci vedere le stanze: molti letti sono senza materassi, perché sono stati rubati dai soldati durante l’ultimo saccheggio. Non c’è corrente elettrica e la luce è fatta con i lumi a petrolio. Non c’è acqua corrente anche se ci sono le tubature e le medicine dalla metà del mese in poi mancano. L’ospedale di riferimento più vicino è a 15 km.. All’ospedale di riferimento, poi, può accedere solo chi può pagarsi il ricovero e le cure in media costano 20 dollari e sono veramente pochi quelli che possono permettersele.

il centro di sanità di Cirhundu
BASTA COSI' POCO PER SALVARE UNA VITA !
Bastano 20 dollari per salvare la vita di una donna o di un bambino condannati a morire per qualche malattia facilmente curabile all’ospedale di Walungu.

Così, accanto al progetto delle ragazze, abbiamo creato una cassa della carità, dove raccoglieremo delle offerte per curare all’ospedale chi non se lo può permettere.

Suor Deodata saprà ogni mese a quanti poveri potrà dire: “Non morirete nella vostra baracca, c’è qualcuno che ha pensato a voi pagandovi le cure. Domani andremo all’ospedale.

donne di Bukavu
Azione Zuki
L'aiuto di Zuki, L’aiuto alle donne vittime delle violenze sessuali da parte dei soldati è cominciato due anni fa, al nostro ritorno da Bukavu. Il progetto si svolge nella zona di Burhale, perché è la più colpita dalla violenza. Oggi sono 221 le donne prese in cura, ma come spiegare loro che portare avanti questo progetto è come inoltrarsi in un pozzo senza fondo...
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